In questi primi mesi del governo Draghi stiamo assistendo a cambiamenti radicali, pessimi, che investono sia la struttura democratica del nostro paese, sia il tema dell’economia e della giustizia sociale.
Se all’inizio, al momento dell’insediamento del governo, era forse lecito qualche dubbio, adesso è davvero difficile non riconoscere il carattere di fondo iperliberista dell’esecutivo. Di un neoliberismo paradossale e parassitario, esaltazione dell’iniziativa privata, ma con i soldi pubblici. L’allievo di Federico Caffè resta quello del pilota automatico che ha massacrato la Grecia.
Nel cuore del PNRR esiste certo un ruolo dello stato, ma è quello di agevolare il più possibile l’accumulazione di risorse e la realizzazione di profitti da parte delle aziende. Sono loro il motore dello sviluppo, anzi della crescita economica, l’unico valore profondo della società. Compito della collettività è non frapporre ostacoli, non indirizzare altrove finanziamenti, non pensare a un intervento pubblico che non sia di puro sostegno all’iniziativa privata.
E soprattutto, naturalmente, non tassare le ricchezze.
Quelle diventeranno, per una sorta di movimento ontologico, investimenti, gli investimenti lavoro, il lavoro reddito. Dall’accumulo e dalla concentrazione di ricchezza e potere deriverà il benessere generale della società. Anzi sgocciolerà, secondo la teoria che ha sostenuto la rivoluzione conservatrice iniziata negli anni Ottanta. Teoria smentita da tutta la letteratura scientifica e oggi abbandonata anche da un moderato come Joe Biden.
Per realizzare tutto questo i lavoratori devono essere disposti a tutto, a lavorare a qualunque condizione. In questo quadro, l’unico lavoro sicuro è quello che c’è e va accettato ‘whatever it takes’, non è più quello che non ferisce o non uccide. La sicurezza sul lavoro rallenta evidentemente l’efficienza e le semplificazioni del sistema di spesa. Per questo il reddito di cittadinanza è considerato una specie di perversione morale dei giovani, responsabile di un intollerabile vizio, l’abitudine e il “piacere del divano”: ragazze e ragazzi non accetteranno di lavorare per salari da fame se non saranno affamati, disponibili anche a condizioni lavorative semi schiavistiche. Al contrario, proprio questo è il merito del reddito di base: permettere di rifiutare lavoretti umilianti sotto-pagati o addirittura il lavoro gratuito, giustificato dall’esigenza di fare curriculum e diventare così brillanti imprenditori di se stessi. La povertà è una colpa. Il sostegno al reddito assistenzialismo.
Allora perfino una misura modesta e di tradizione liberale come la tassazione delle successioni per i patrimoni più cospicui, non viene neppure presa in considerazione. La meritocrazia tanto celebrata come legittimazione delle “giuste disuguaglianze”, mostra qui la sua natura più autentica, quasi ontologica. È stabilita da prima del concepimento, si nasce ricchi cioè meritevoli. Una forma di superiore predestinazione. (Peraltro in quella famiglia avrai i libri importanti, farai le scuole giuste, ti presenterai agli esami con il curriculum adeguato. Alla fine avrai il voto che effettivamente “ti meriti”, mica sarai privilegiato).
Ma pensare di intervenire sulla trasmissione dei patrimoni diventa mettere le mani in tasca agli italiani – perché va da sé che gli italiani sono tutti uguali, la società è un insieme organico dove non esistono differenze o ingiuste disuguaglianze, l’unico conflitto lecito è con il parlamento dei privilegiati e il sistema fiscale dei vampiri. I licenziamenti in questa logica devono essere sbloccati altrimenti, impedendo di licenziare un “garantito”, si crea una disparità rispetto a un precario. Insomma il lavoro stabile, dotato di diritti, è da considerare un privilegio intollerabile, che crea disuguaglianza, tutto il lavoro deve essere ugualmente precario. L’uguaglianza dei sudditi e degli schiavi.
E vediamo tre morti di lavoro al giorno, sentiamo parlare di licenziamenti selettivi, vediamo squadracce aggredire lavoratori in lotta. Vediamo una disoccupazione e sottoccupazione femminile crescere ancora. Che altro deve accadere perché i sindacati proclamino sciopero generale e manifestazione nazionale?
Perché poi Draghi ha definitivamente concentrato su di sé più o meno tutti i poteri. Con la struttura e il decreto “cabina di regia” per il PNRR un’importante riforma costituzionale pare essere giunta a compimento senza che nessuno se ne accorgesse: la trasformazione del Presidente del Consiglio in Primo ministro. Proprio quella riforma che gli italiani bocciarono con il referendum del 2016. Noi avevamo il Presidente del Consiglio e il Consiglio dei ministri. Così configurato, il Governo risulta un organo complesso. Ora la posizione di Draghi diventa di fatto quella di un primus super pares. E questo si estende al potere conferito a Draghi di esercitare poteri suppletivi su tutti gli organi di controllo ed enti locali. Salta dunque l’attenzione all’ambiente, ai diritti dei lavoratori, alle esigenze di legalità contro le mafie. C’è un via libera generale alle grandi opere. Tutto deve essere fast fast fast. All’americana. E se accade una strage (come a Mottarone) la colpa non è mai dell’imprenditore, della logica del profitto ad ogni costo, ma di qualche singolo lavoratore.
Alla fine la spinta che si era vissuta nella primavera dello scorso anno, all’esordio della pandemia, sembra rovesciata nel suo contrario.
Si diceva che niente sarebbe più stato come prima; che si era percepita chiara l’importanza della sfera collettiva, comunitaria, di relazioni di solidarietà, di un sistema sanitario pubblico e territoriale. Era emersa la necessità di una società della cura, il valore del lavoro che crea tessuto politico e umano, l’esigenza di ripensare il rapporto con la natura e riconoscere la nostra comune fragilità esistenziale, il nostro essere parte e non padroni del mondo. E invece “niente sarà come prima” rischia di diventare adesso la corsa a tornare il prima possibile a quella normalità che c’era una volta – responsabile del disastro dell’epidemia. Ma ancora peggio, ancora più stritolando persone, devastando il paesaggio e distruggendo diritti. Ora vengono perfino messi in discussione diritti acquisiti ed è sempre più pressante l’attacco alla legge 194 sul diritto all’aborto.
Ovviamente il “governo dei migliori” non poteva che benedire gli scellerati accordi con la Libia, continuando a delegittimare e ostacolare i salvataggi delle navi delle ONG, col risultato che i migranti continuano a morire nel Mediterraneo, e dei corridoi umanitari o della riattivazione del programma Mare Nostrum non si parla nemmeno più.
Tutto questo si riflette anche sui territori. Agli enti locali viene trasmesso un nuovo quadro, un messaggio chiaro, e in città Nardella lo raccoglie subito, lavorando sempre più per imprese e multinazionali e orientando al mercato quel poco di pubblico rimasto.
Se c’è una cosa che la crisi pandemica ci ha insegnato, è la necessità di salvaguardare il comune, il pubblico: nella sanità, nella cura delle persone, nella scuola, nella democrazia di prossimità, nel garantire spazi di azione, educazione, cittadinanza che ci rendano più forti nel reagire e pianificare l’uscita da situazioni sempre più complesse. A Firenze a tutto questo si continua a rispondere con l’automatismo della svendita di pezzi di città, imbavagliando il dibattito consiliare e cittadino, e non pianificando con attenzione verso le future generazioni.
In pochi giorni, dopo le lacrime di coccodrillo sui grandi contenitori destinati agli investimenti turistici, fa passare la collocazione sul mercato con la Newco dei nostri servizi pubblici (a partire da Publiacqua) e rilancia il devastante progetto di aeroporto. Il centro sarà pensato per studenti di ceto alto, startuppers, smartworkers e coworkers: i “cittadini temporanei”, come li definisce l’assessora all’urbanistica.
Non solo. Nel nuovo sistema di poteri delineato, e con nuove risorse, in poche ore rilancia grandi opere devastanti confidando che questa volta niente lo possa fermare. E si prepara a piazzare altri colpi, come il progetto di sventramento del Parco delle Cascine partendo dall’area dell’ex OGR, che ospiterà 80.000 mc di nuovo residenziale e ricettivo; Cascine che saranno attraversate dalla nuova autostrada urbana “Pistoiese Rosselli”.
Avremo un’enorme nuova stazione TAV (che pochi anni fa per Nardella era opera inutile), dotata di un “people mover” per coprire 1.200 mt (l’esperienza di Pisa non ha insegnato nulla), e grazie alle “semplificazioni”, sempre meno controlli su appalti e lavori, in spregio a sicurezza sul lavoro e misure antimafia.
Business, distruzione dei diritti, distruzione ambientale, nuovi assi di penetrazione del traffico, attrazione di capitali speculativi internazionali vanno a braccetto. E Nardella si candida a fare della nostra città un modello – ma in negativo. Un modello dove secondo Nardella possono trovare posto anche i CPR (e qui scatta l’ennesimo cortocircuito dato che il PD si è detto contrario), per rinchiudervi però, solo i delinquenti. Chi e come si stabilisca questo status, non sembra molto chiaro.
In questa complessità è importante tenere insieme Costituzione, giustizia sociale e territorio, evitando di cadere in visioni parziali.
Le periferie delle grandi città e del mondo si sentono abbandonate ormai da ogni rappresentanza politica e in particolare da quella che una volta si chiamava sinistra. Guardano alla grande ricchezza finanziaria come qualcosa di irraggiungibile e intoccabile, sottratto alla sfera politica degli stati nazione. Naturalizzato.
E la miseria umana del nazionalismo e del razzismo che esclude gli ultimissimi dalla competizione con gli ultimi appare l’unica possibilità per accedere a briciole di risorse e a una qualche identità. Non più di classe, di etnia. Non più contro il capitale, contro l’immigrazione.
Occorrerebbe agire sul piano del materiale e dell’immaginario.
Operare una forte redistribuzione del reddito che permetta la ricostruzione di uno stato sociale in grado di intervenire sulle disuguaglianze cresciute negli ultimi anni – ed esplose nel periodo della pandemia. Solo combattendo la povertà e il senso di impotenza che producono paura solitudine e rabbia si può pensare di combattere quella crescita del disumano che fa del Mediterraneo un immenso cimitero di esseri umani, invasori solo dei fondali marini.
Sul piano simbolico c’è da ricostruire un tessuto di socialità, il senso di appartenenza a una comunità politica che faccia sentire tutte e tutti parte di un destino comune.
È un lavoro non da poco, ma non si inizia da zero.
Sono diffuse nella società e nella nostra città, anche se frammentate e un po’ disperse, esperienze di esistenza collettiva e di resistenza da cui si può ripartire. Sono emerse quasi come sentimento di massa nel primo periodo del lockdown, slancio ingenuo e un po’ retorico, ma segno di un immaginario non individualistico, rappresentato da quel “nessuno si salva da solo” che è risuonato più volte nel discorso pubblico. Soffocato poi dalle esigenze di ripartenza dell’economia, è comunque qualcosa che è stato. Una risorsa umana pure nella devastazione antropologica ed etica del neoliberismo.
Un lavoro non da poco, certo, ma che può dare senso alla nostra esperienza politica e alla nostra vita.
Intervento di Andrea Bagni alla assemblea di Firenze Città Aperta
del 17 giugno 2021