La città è come in pausa, semi vuota oppure in coda, sorprendentemente ordinata, a distanza di sicurezza davanti ai supermercati, ognuna/o con il suo carrello, qualche volta con un libro da leggere nell’attesa.
Poi alle 18 arrivano i notiziari della protezione civile, che sembrano bollettini di guerra.
Da settimane vedevamo scene orribili, di spaventosa disumanità, alle frontiere della Grecia, sulle coste delle sue isole. Fucili e bastoni contro persone disperate che tendevano le braccia, pronte a ringraziare, da barche sovraffollate. Bambine e bambini oltre muri e fili spinati. Il virus da cui ci si voleva difendere era quello della disperazione, della sofferenza umana: il bisogno e la speranza di una vita migliore che spinge a partire – che ha sempre spinto a partire.
Poi è arrivato il coronavirus, che non conosce frontiere né muri, viaggia sulle ali della libertà sempre riconosciuta alle merci (solo alle merci) dal neoliberismo, che ha da tempo contagiato il mondo con la sua razionalità economicistica, producendo solitudini, distruggendo natura e paesaggio, azzerando protezioni sociali.
Diceva Margareth Tatcher che la società non esiste, esistono solo gli individui. Ognuno deve essere imprenditore di se stesso in una competizione universale. Adesso l’universale è arrivato in forma di virus. Adesso si scopre che nessuno si salva da solo. Che la nostra salute (salute-saluto-salvezza, come per i poeti antichi) dipende dalle altre e dagli altri, dalla comunità cui apparteniamo. Che avere tagliato in nome delle privatizzazioni risorse e posti letto negli ospedali pubblici, il personale e i reparti di terapia intensiva, mette in pericolo le nostre possibilità di vita. Non si è infermieri medici o anestesisti di se stessi.
E tutto questo distrugge lavoro, artigianato e partite IVA, negozi e attività commerciali. Lascia le lavoratrici e i lavoratori dei servizi, i precari, gli operai delle fabbriche, quasi indifesi di fronte al pericolo del contagio. Gli ultimi, di nuovo, servi delle macchine e dell’economia come nel mondo prima del Novecento.
Si torna improvvisamente a paure antiche, che riportano alle origini, al bios. La minaccia del contagio ci riconsegna alla nostra natura fragile, precaria. Rimette in scena il nostro corpo, il respiro, le parole, le mani. La nostra vulnerabilità. Il bisogno che abbiamo per esistere di appartenere a una comunità che ci accoglie, ci mette nel mondo e ci protegge. Ci fa diventare quello che siamo, con la nostra individualità e la nostra storia. Ci riconosce e ci permette di conoscerci.
Nell’emergenza cresce un’etica dell’aiuto reciproco che ci unisce e si mostra dalle finestre e dai balconi. Nelle lenzuola che abbiamo visto esposte davanti agli ospedali di Firenze in cui si ringraziavano tutte e tutti gli operatori che assistono i malati.
Adesso, nell’epoca della post-verità, dove sembra si possa dire qualunque cosa e la conoscenza è considerata roba da “professoroni” buona per i salotti delle élite, medici e ricercatori sono diventati la nostra speranza. Un po’ tardi, considerato come i governi hanno trattato la ricerca in questi anni. Ma la scienza sembra ritrovare la sua autorevolezza.
Firenze Città Aperta è vicina a tutti coloro che soffrono, che temono per se stessi, per i propri cari, per la propria città. È vicina a tutte le persone che hanno perso il lavoro o che continuano a lavorare correndo un pericolo, a coloro che sono impegnati nell’aiutare i malati.
Firenze vive.
È viva anche nella distanza che allontana di qualche metro chi la abita e la ama. Anche nella rigidità delle code davanti ai negozi di alimentari. È forte e calda negli sguardi che si incrociano e portano il segno di un destino comune, della condizione umana che ci fa fratelli e sorelle.
Vive nei tanti messaggi e nei video che rimbalzano sui social, alcuni bizzarri e ironici come è tipico di Firenze e dei suoi abitanti, altri commoventi. Si sente la nostra città nell’ondata di affetto che abbraccia gli operatori sanitari, nella nascita di reti di solidarietà e auto aiuto che portano sostegno o anche solo la spesa agli anziani. Nei canti e negli applausi dalle finestre.
Ci ricordano una poesia di Emily Dickinson:
L’acqua è insegnata dalla sete.
La terra, dagli oceani traversati.
La gioia, dal dolore.
La pace, dai racconti di battaglia.
L’amore da un’impronta di memoria.
Gli uccelli, dalla neve.
Prima o poi sarà tutto questo un’impronta nella memoria, un ricordo comune che forse riuscirà a insegnarci l’amore. Quello politico, che abbraccia gli altri, la città, il mondo intero.
Alla fine faremo una grande festa. Sarà la festa del ritrovarsi, dell’uscire insieme, dell’abbracciarsi nelle piazze, nella primavera della città.
Tenetevi pronti. Sarà bello.
Andrea Bagni
Presidente di Firenze Città Aperta
Immagine: toscanaoggi.it