Un ventennale segnato da numerosi attacchi all’occupazione, sostenuti dal Governo Draghi
di Moreno Biagioni
Come prima, peggio di prima – Da più parti, a più riprese, è stato riaffermato che dopo la pandemia la situazione sarebbe stata ben diversa da prima. E’ vero, se ne hanno molte avvisaglie, nel mondo del lavoro e nella società. Solo che ci troveremo, ci stiamo già trovando, in una situazione diversa sì, ma peggiore di quella precedente:
stanno aumentando gli incidenti, spesso mortali, sul lavoro, sono entrate in azione, in alcuni casi, “squadracce” di picchiatori per impedire i picchettaggi anti-crumiri degli scioperanti,
è iniziata la stagione dei licenziamenti, nonostante le diatribe fra chi voleva che la moratoria si prolungasse per lo meno fino ad agosto e chi invece voleva dare licenza di licenziare a partire da subito (la soluzione è stata il cosiddetto “avviso comune”, cioè la benevola sollecitazione ai “padroni” a voler cercare tutte le strade possibili prima di procedere ai licenziamenti).
La Multinazionale inglese Melrose, – e non è certo un caso isolato – non ha fatto ricerche del genere né avviato confronti: ha deciso di chiudere la produzione a Campi Bisenzio, probabilmente per delocalizzarla laddove si ha un costo minore e probabilmente vi sono maestranze non sindacalizzate e quindi meno combattive: i/le 422 operai/e della Gkn Driveline dalla sera alla mattina si sono ritrovati senza lavoro (con conseguenze anche sull’indotto), avvisati/e da una mail sulla loro pec.
Il necessario rilancio della lotta di classe – Da tempo c’è chi sostiene che “siamo tutti sulla stessa barca” (specialmente ora durante la pandemia) e che “non esistono alternative” (in inglese questa affermazione della signora Thatcher veniva condensata nell’acronimo TINA – There Is Not Alternative -), derivandone, come conseguenza, che le lotte sindacali e sociali non avevano e non hanno più senso.
L’economista Luciano Gallino riteneva, peraltro, già qualche anno fa, che la lotta di classe non era mai venuta meno, solo che, al momento, l’avevano vinta alla grande i padroni e si trattava di passare alla controffensiva.
La situazione da allora non è cambiata, anzi, se possibile, si è ulteriormente aggravata, con il mondo del lavoro che è stato messo ancor più nell’angolo.
Tanto è vero che in certi settori siamo tornati a condizioni lavorative dell’Ottocento, con la necessità di battersi nuovamente per ridurre l’orario di lavoro (ricordate il film “I compagni”, in cui Monicelli ci raccontava la storia di una lotta, nella Torino ottocentesca, per ridurre l’orario da 14 a 13 ore?).
Grazie signora Thatcher e grazie signor Renzi – L’intento dei “padroni del vapore” è di potersi liberare il più possibile dai “lacci e lacciuoli” dei contratti a tempo indeterminato per poter usufruire del lavoro precario, la forma oggi prevalente grazie a provvedimenti governativi che hanno avuto la loro punta di diamante nel “job act” di Renzi (sulle orme del suo modello inglese Tony Blair, il laburista degenere che aveva portato a compimento l’attacco a lavoratori e lavoratrici avviato dalla signora Thatcher).
In certo qual modo, si fa un’operazione egualitaria, ma per adeguare retribuzioni e rapporti di lavoro ai livelli più bassi, con un’indubbia “marcia del gambero”, che ci riporta a vari decenni prima (riprendendo il titolo ironico di un film su uno sciopero di minatori nel 1989, in piena era thatcheriana – “Grazie, signora Thatcher” – si potrebbe dire “Grazie, signor Renzi”, estendendo i ringraziamenti a chi lo ha preceduto e chi lo ha seguito nel governo del Paese, fino al “salvatore della patria”, secondo un’opinione diffusa, Mario Draghi).
Oltre ai licenziamenti ed alle molteplici forme di lavoro precario, è assai diffuso il caporalato e si sta giungendo a nuove forme di schiavismo (anche in Toscana, una regione in cui un tempo la tutela dei diritti di chi lavora era ad un livello piuttosto alto).
La “marcia del gambero” in Toscana – Evidentemente qui la marcia del gambero è stata, ed è, ancora più veloce, per allinearsi, sulla base di quello spirito egualitario indicato in precedenza, a quello che risulta l’orientamento generale.
Renzi, comunque, intende andare oltre e partirà a breve con la raccolta di firme per un referendum volto ad abrogare il reddito di cittadinanza, che, egli sostiene, è veramente diseducativo (per usare le sue parole, in Italia non può continuare ad esserci uno strumento “con cui si educano i giovani a vivere di sussidi e non di sudore”). Non conta niente che questo reddito, anche se con modalità insufficienti, impedisca forme vergognose di sfruttamento, con persone costrette ad accettare lavori sottopagati.
Anche in questo caso un altro Matteo dannoso per la politica italiana – Matteo Renzi – (il capo-fila dei Mattei dannosi è, naturalmente, il sovranista Salvini) esercita la funzione di “voce del padrone” ed opera perchè anche in Italia si proceda in direzione del Paese, l’Arabia Saudita, che lui stesso ha affermato recentemente di ritenere un modello a proposito di rapporti di lavoro (e pensare che anni fa Renzi fu scambiato, anche se per un brevissimo periodo, per un politico di sinistra).
“Società del profitto” e “Società della Cura” – Certo, esistono sacche di resistenza a questi attacchi molteplici e pressanti ai lavoratori ed alle lavoratrici, attacchi fatti secondo l’impostazione liberista che vede nel mercato l’unico regolatore valido (senza disdegnare però i sostegni pubblici alle imprese, secondo il principio che si privatizzano i profitti, si socializzano le perdite, si dà, sempre e comunque, prima di tutto, un aiuto agli imprenditori, senza porre condizioni – che riguardino, magari, l’impegno a non licenziare o ad attuare riconversioni ecologiche -).
Perciò è urgentemente indispensabile passare dalla “società del profitto” a quella “della cura” (di sé, degli altri/delle altre, dell’ambiente, della qualità della vita), come sta cercando di fare, appunto, la Società della Cura, un tentativo di collegare nazionalmente le esperienze locali che vanno in quella direzione.
Si tratta di un passaggio indispensabile per uscire in un modo positivamente diverso dalla pandemia, per dare al pubblico il ruolo che gli compete, dopo anni di “ubriacatura” di “privato”, con privatizzazioni senza limiti (si sta arrivando alla quotazione in borsa dell’acqua, di “sorella acqua”, secondo la dizione “francescana”, cioè di un elemento essenziale per la vita di ciascuno/a), seguendo il motto, imperante ormai dagli anni ’80 del secolo scorso, “privato è bello”, per restituire possibilità di sopravvivenza ad un’umanità ormai sull’orlo del baratro e per far sì quindi che vi siano speranze di futuro per le giovani generazioni, per rimettere finalmente in discussione un sistema, quello capitalistico, ritenuto ormai, in effetti, l’unico realizzabile nel mondo (anche nei Paesi che si autodefiniscono comunisti), per considerare nuovamente la politica strumento di cambiamento, con la prospettiva di una società diversa, e non soltanto mezzo per assicurare la gestione del potere.
Lo spirito di Genova 2001 – E’ in questa chiave che occorre ritornare, nel suo ventennale, allo spirito di Genova 2001 e dei Social Forum che caratterizzarono quel periodo, in cui si trovarono a discutere e ad operare insieme realtà diversissime fra loro, eppure unite dall’obiettivo comune di contrastare i poteri forti, i G8, le multinazionali, l’Organizzazione mondiale del Commercio, le logiche del mercato e del profitto, tutto ciò che Ernesto Rossi, l’autore con Eugenio Colorni e Altiero Spinelli del “Manifesto di Ventotene” per un’Europa unita, condensava nella definizione “i padroni del vapore”.
Genova e i Social Forum erano animati infatti da centri sociali e “tute bianche”, Rete Lilliput e varie organizzazioni cattoliche, tipo le ACLI, sindacati nazionali e realtà locali, associazionismo dei circoli e delle case del popolo, movimenti antirazzisti, pacifisti, ambientalisti, espressioni diverse del mondo antifascista, a difesa della Costituzione e dell’esigenza di “restare umani” (si direbbe oggi con una dizione “inventata” da Vittorio Arrigoni, ucciso in anni successivi per il suo impegno per la popolazione palestinese).
Insomma, dalla “meglio gioventù” di allora e da un vasto schieramento di “compagne/i”, anche “diversamente giovani”, nonché da un insieme di persone che si potrebbero classificare, con espressione “giovannea” (di Papa Giovanni XXIII), “donne e uomini di buona volontà”.
Le analisi, le elaborazioni, le proposte che scaturirono da un fermento di confronti, di idee, di iniziative sviluppatosi a livello mondiale, sono in gran parte ancora validi. Solo che l’aver stroncato con la violenza, come avvenne a Genova, quel movimento che aveva radici nell’attività di tanti soggetti e tante persone, in moltissimi paesi, pose fine a tentativi ampiamente condivisi di cambiare il mondo.
Il Social Forum di Firenze ed il movimento per la pace – Il tentativo di ripresa “movimentista” nel novembre dell’anno dopo a Firenze, con un Social Forum partecipato e vitale, segnato, fra l’altro, da una grande manifestazione conclusiva, il 9/11, contro la guerra (che il Presidente Bush aveva intenzione di avviare contro l’Irak, in nome – con il pretesto – della lotta contro il terrorismo), non fu in grado di invertire la rotta, se non per un breve periodo (seguirono altre grandi manifestazioni pacifiste, fra cui una, imponente, a Roma, nel 2003, ma la guerra all’Irak non fu bloccata – ebbe inizio nel marzo del 2003 – e questo portò ad un progressivo ridimensionamento del movimento per la pace, che perse quelle caratteristiche di massa che aveva avuto nel momento della sua massima espansione, tanto da essere definito dal “New York Times” “la seconda potenza mondiale”).
Comunque, a Firenze, nei mesi che precedettero il Social Forum, ci fu un’indegna campagna di stampa, guidata dal quotidiano “La Nazione”, volta a terrorizzare la popolazione con la previsione che la città sarebbe stata sconvolta, come, si diceva, era accaduto a Genova l’anno prima.
Chi stava preparando l’evento cercò di reagire, compilando, fra l’altro, un opuscolo (a cura della Comunità dell’Isolotto, della FIOM/CGIL, della Fondazione Michelucci …), stampato in 20.000 copie dalla Regione, che raccontava la Firenze dell’accoglienza, della solidarietà, dell’inclusione. E fu Enzo Mazzi, della Comunità dell’Isolotto, a dare il benvenuto in piazza Santa Croce a chi arrivava in città per partecipare al Forum.
Ciò nonostante, numerosi negozi adottarono misure protettive per il timore di danni e saccheggi e chiusero i battenti il giorno della manifestazione (su molti negozi chiusi, i partecipanti al corteo, che fu imponente, vivace, senza alcun incidente, lasciarono dei cartelli con le scritte “chiuso per stupidità, chiuso per ignoranza”).
La fine della “spinta propulsiva” – Continuarono poi ad esservi – continuano ancor oggi – esperienze diffuse di solidarietà attiva, di cooperazione, di tutela dei diritti, e vi fu ancora qualche social forum in ambito europeo e mondiale.
Si andò però spegnendo quella grande carica che aveva connotato la fine del ventesimo secolo, a partire dalla manifestazione di Seattle, negli Stati Uniti, il 30/11/1999, in occasione di una riunione dell’OMC – Organizzazione Mondiale del Commercio -, manifestazione che dette avvio al movimento denominato “no global” proprio perché contestava la globalizzazione neo-capitalista – delle banche, delle multinazionali, dei grandi gruppi finanziari, all’insegna del libero mercato e della concorrenza -. Movimento che si era sviluppato ulteriormente all’inizio del nuovo millennio, rendendo credibile, come se fosse a portata di mano, la prospettiva, l’utopia, di un “altro mondo possibile”.
Si è perso,durante il ventennio che ne è seguito, nella stragrande maggioranza delle persone, il senso del futuro, dell’impegno per il cambiamento, dell’azione collettiva, per rifugiarsi invece nella difesa dello “status quo”, nell’adattamento all’esistente, nell’indifferenza, che è forse la condizione peggiore (si potrebbe citare in proposito l’ “odio per gli indifferenti” del giovane Gramsci).
Per riprendere slancio – E’ necessario, per riprendere slancio, avere come punto di riferimento quanto di positivo, di innovativo, di autenticamente “rivoluzionario” avviene oggi nel mondo.
Cito, a titolo di esempio, il confederalismo democratico, centrato sulla parità di genere, sull’ambientalismo, sull’intercultura, del popolo curdo del Rojava ed i “carajoles” degli zapatisti e delle zapatiste nella zona messicana del Chapas, basati anch’essi sulle potenzialità della democrazia dal basso che si realizza nelle autonomie locali.
Ed anche i movimenti, in primo luogo giovanili (vedi i “Fridays for future”), che chiedono con forza alla politica istituzionale di cambiare rotta sulle tematiche ambientali prima che sia troppo tardi.
In varie parti del mondo – negli stessi Stati Uniti, punta avanzata del neo-capitalismo del ventesimo secolo, meno che altrove nella vecchia Europa – si è ricominciato a discutere di socialismo, di un socialismo libertario in grado di coniugare diritti civili e diritti sociali, un socialismo completamente rinnovato dai contributi, anche teorici, del femminismo, dell’ambientalismo, dei nuovi movimenti, un socialismo che comincia ad apparire come l’unica strada per non cadere nel baratro che si prospetta davanti all’umanità.
Ricordare Genova 2001 significa, deve significare, riportare al centro dell’attenzione i contenuti, le proposte, gli obiettivi che il movimento, portava avanti (e che proprio per la sua carica trasformatrice fu duramente represso): occorre da un lato mettere in luce “il lato oscuro della forza (del potere)”, avanzando richieste anche in quella direzione (per quanto riguarda, ad esempio, la possibilità di identificare poliziotti e carabinieri che compiono azioni repressive), dall’altro va colta tutta la valenza propositiva e progettuale di quanto era scaturito dalle analisi di allora, rivelatesi alla distanza molto puntuali e sensate.
Per una mobilitazione ampia, diffusa, immediata – Ambiente e lavoro sono i punti su cui è urgente muoversi, perchè proprio su di essi sta concentrandosi il “fuoco” avversario: con la riproposizione delle opere inutili e dannose, da finanziare con i fondi che arriveranno dall’Europa per il rilancio dell’economia dopo la pandemia, con il padronato che intende cogliere l’occasione per ridurre ancora di più, con i licenziamenti, le fasce di lavoratori/lavoratrici a tempo indeterminato sopravvissute, aumentando di contro il precariato.
Su questo secondo fronte bisogna procedere verso una mobilitazione ampia, che non si limiti alle pur indispensabili iniziative sindacali (uno sciopero generale nazionale si impone, in tempi brevi), ma coinvolga, com’è avvenuto in altre stagioni (per esempio, ai tempi in cui furono licenziate migliaia di persone alla Galileo ed alla Pignone a Firenze) la società civile attiva nelle sue diverse espressioni associative ed anche come singoli/e cittadini/e.
Non avere una reazione adeguata all’attacco che sta venendo avanti adesso, con l’avallo del Governo, vuol dire che stanno prevalendo sfiducia, rassegnazione, indifferenza, alimentate da decenni di arretramento e di adattamenti a quanto impone il neo-liberismo trionfante, e che ciò precluderà per un lungo periodo ogni ipotesi di riscossa.
Non mollare in questo momento significa invece riaprire, come si cercò di fare a Genova, i percorsi verso un “altro mondo possibile”, che saranno lunghi e difficili, ma di nuovo realmente praticabili.
Impegniamoci quindi per una mobilitazione ampia e diffusa, a livello sindacale, sociale, culturale, politico, nello spirito che animò Genova 2001.
Se non ora, quando?